LA FIDUCIA -Capitolo 2 “Il fine giustifica i mezzi”

di | Gen 23, 2021 | Attualità

“Forse qui si sedeva Pasolini o De Chirico” pensava Zeta nel seguire la bella cameriera che lo conduceva al tavolino vicino alla vetrina d’angolo. “Saragat” disse improvvisamente l’avvenente ragazza nella sua attillata divisa con cui il famoso caffè in Piazza del Popolo vestiva i propri dipendenti. Era come avesse percepito e proseguito quei pensieri. “Scusi, cosa ha detto” domandò Zeta. “Oh niente, pensavo che avrebbe apprezzato  l’informazione storica. Questo è il tavolo preferito da Saragat”. “Grazie” le disse sorridendo Zeta “apprezzo tantissimo, specialmente le cose dette da un’affascinante ragazza come lei” e con gesto discreto le allungò un discreta mancia. 

Da sopra la mascherina gli occhi verdi della donna mostrarono gratitudine. “Aspetto altre persone poi la chiamerò per ordinare”. La ragazza fece un breve inchino e se ne andò. Zeta non poté fare a meno di seguire le sinuose curve del corpo e del suo fondo schiena, finché non sparì dietro una colonna dello storico bar.

Era Il Rosati, uno dei locali più famosi della capitale frequentato dagli inizi del 900 da grandi personaggi, intellettuali, scrittori, attori, registi e politici.

Per un attimo si perse nei fantasmi di quelle stanze. Immaginò Moravia con l’amata Elsa Morante, Calvino e poi Fellini, infine Trilussa. Già un grande e arguto critico del potere. Potere: a quel pensiero sentì un forte disagio, come se quasi quelle ombre fossero lì veramente a scrutare le recondite verità della sua anima grigia. Un ticchettio sul vetro per fortuna, lo fece tornare alla realtà. Il sorriso di Kappa che lo salutava dalla piazza fu quasi rassicurante. 

“Giornata fredda ma bellissima” gli disse il compagno, mentre, togliendosi l’elegante cappotto di cammello, si apprestava a sedere al tavolo. “Beh con qualche sofferenza, ma la prima é andata” furono le prime parole di Kappa.

“Non come pensavamo, per poco accadeva l’irreparabile” s’irrigidì Zeta. Nonostante la mascherina, si percepivano i tratti divenuti nervosi della  sua faccia. Gli anziani occhi si fecero stretti in un’espressione di collera e inaspettata vivacità . 

“Io ho fatto tutto quanto era previsto, non devi essere incaz…” Kappa fu interrotto a mezza frase da un “incapaci!” detto dalla voce alta, secca tagliente di Zeta. 

Dei clienti giapponesi ad alcuni tavoli distanti si voltarono curiosi. Kappa tacque arrossendo in volto. 

“Abbiamo influenzato regimi, blandito presidenti impresentabili, alterato accordi internazionali, appoggiato cariche cardinalizie tu… tu…” il viso diventò ancora più duro come sull’orlo di una crisi di rabbia, ma dopo una pausa si rilassò e con fare quasi rassegnato “che figura…salvati da uno che si chiama Ciallomillo e vuole curare le piante con il sapone”.

Kappa non proferì parola e Zeta continuò “non ci resta che aspettare il nostro uomo e sentire cosa abbia da dire”.  Un silenzio imbarazzato cadde fra i due interlocutori, solo più tardi la scena si ravvivò grazie alla graziosa cameriera che accompagnò al tavolo una persona che era appena entrata nel locale.

Era il “collegamento” che stavano aspettando. Non si era ancora messo a sedere che, dopo essersi girato più volte come per assicurarsi che nessuno stesse ascoltando, inizió a bassa voce con tono preoccupato: “male, sta procedendo male”.

Finí di sfilarsi la manica del pesante giubbotto di pelle e continuò senza che nessuno gli avesse fatto domande “non riusciamo ad andare avanti, il reclutamento si è fermato. Quell’indagine ha incasinato tutto. I numeri rimangono insufficienti, e lui non riesce ad avere attrattiva maggiore di quella che siamo riusciti a costruirgli il giorno della fiducia”.

Zeta era visibilmente irritato “carogne, bastardi, ingrati, hanno memoria corta ma ce lo ricorderemo”. Stava però per arrivare l’informazione più dura da digerire: “ascoltate ho l’impressione che alla prima tempesta la diga non reggerà, forse il momento è finito”.

Il collegamento disse le ultime parole lentamente, come una sentenza, senza avere il coraggio di alzare gli occhi. Zeta, sembrava una statua di pietra e con un gesto quasi meccanico prese il cellulare e fece un numero. Aspettò qualche secondo poi senza presentarsi allo sconosciuto interlocutore telefonico disse: “siamo al punto di non ritorno, il capolinea è arrivato”.

Da fuori si avvertiva una voce lontana e ovattata ma non si percepiva la risposta a quel messaggio che apparve subito come una frase in codice. La risposta durò un paio di minuti, alla fine Zeta non replicò neanche una parola, chiuse la telefonata e fece un lungo sospiro.

Si voltò per qualche istante verso la vetrina, lo sguardo si perse negli spazi della piazza e si fermò per qualche istante sul barocco di Santa Maria del Popolo dove la mano sapiente di Gian Lorenzo Bernini aveva lasciato la propria impronta.

Finalmente si decise a guardare i due compari che attendevano con ansia le sue parole. “Quando la battaglia volge alla sconfitta, merita una ritirata strategica per riorganizzare la truppa. Se poi serve fare accordi con chi ci è stato nemico, occorre fare un passo indietro fino addirittura ad allearsi… se questo servisse allo scopo”.

“Quindi?” gli domandarono i due quasi all’unisono.

“Lui ha finito il suo percorso, non possiamo perdere tempo con chi non è capace di portare in fondo il nostro obiettivo. Torneremo indietro e troveremo le parole giuste; se è necessario che chi ci ha combattuto torni in campo, così sia. Il fine è un altro e va portato sempre in fondo… con chiunque”.

Kappa rimase esterrefatto ma non ebbe coraggio di dire una parola.

“Andate” li congedò Zeta “ricostruite gli equilibri e preparate la persona giusta che soddisfi le richieste, questo supererà le perplessità del Presidente”. I due si vestirono, salutarono e uscirono dal locale.

La cameriera si avvicinò con discrezione a Zeta rimasto solo “posso essere utile?”. Zeta la guardò; la faccia anziana sembrò essere ancora più vecchia e provata. Le sorrise con un misto di tristezza e cortesia “un caffè grazie, amaro… il più amaro possibile”.

Dopo averlo bevuto, si rivestì e salutò la bella ragazza che con gentilezza gli aprí la porta del caffè. Fuori il sole invernale lo colse quasi di sorpresa e gli spazi della piazza, quasi deserta, apparvero incredibilmente più grandi. 

Passeggiò automaticamente fino al centro della splendida ellissi disegnata da Valadier dove troneggiava l’imponente obelisco Flaminio.

Pensò ai Faraoni Egizi, a Seti primo, al figlio di Ramesse II che avevano fatto realizzare più di tremila anni fa questo magnifico pinnacolo di granito dedicandolo proprio al sole, lo stesso che inondava la splendida piazza. Tremila anni fa, la stessa ricerca di potere, quante battaglie, quante alleanze, accordi segreti o palesi, quante cospirazioni. Cosa rimaneva di quel potere: un sasso scolpito. Si sentì improvvisamente vecchio, pensò alla morte e alla sua anima grigia. 

Il volo improvviso e rumoroso di un gruppo di piccioni lo destò da quei pensieri, percepì come ancora più freddo il vento invernale che si stava alzando. Si chiuse più stretto il cappotto, si sistemò la mascherina e s’incamminò verso le vie del centro. Pian piano si mosse verso gli antichi palazzi, quelli dove il potere si cercava di governarlo; si voltò per un’ultima volta verso la piazza e le zone dove il sole splendeva meraviglioso, ebbe un attimo di esitazione. Chissà perchè pensò alla sua vita e di nuovo al potere e alla sua anima grigia. In fondo lui era quello e lo era sempre stato, non sarebbe mai riuscito cambiare e a essere diverso ora che specialmente era vecchio.
Aveva ancora una missione da fare, si voltò e deciso lasciò le ampie strade del centro e imboccò i vicoli. Pian piano le strette strade sembrarono inghiottirlo. Sparì nelle ombre di quei palazzi, lì si muoveva meglio, lì fra le ombre sarebbe stato più a suo agio.

– Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente causale e frutto della fantasia dello scrittore –


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