L’ULTIMO EDITORIALE

di | Ott 16, 2018 | Attualità

Vennero anche quella mattina. Dondolando con quella camminata strana. Si misero come sempre di buona lena, volevano finire mi avevano spiegato, prima che tutto accadesse. Impastarono ben bene la polvere e iniziarono a intonacare il vecchio locale. Quei muri li conoscevano bene. Li avevano tirati su loro recuperando le pietre antiche, sparpagliate tra i rovi. Anche le travi a vista del soffitto avevano rimesso. Con la carta vetrata l’avevano riportate a nuovo, belle lucide, togliendo i segni neri dell’incendio che aveva distrutto tutto, otto anni prima. La mia attività artigianale erano i “cocci”, come li chiamava per prendermi in giro Antonia e io le replicavo stizzito “ceramiche sono, ceramiche”. Allora, nel paese, non c’era quasi più nessuno. I turisti capitavano per caso, perché sbagliavano strada verso la costa, verso il mare. Da sempre i soldi erano pochi ma allora i guadagni non c’erano quasi più. Agli uomini della famiglia Salamara non importava granché. Anche quella sera pretendevano “un prezzo” che non avevo e non potevo avere. Prima mi colpirono forte, poi colpirono anche Antonia e diedero fuoco al misero laboratorio. Tutto si distrusse, ma di più si distrusse Antonia che da quella sera rimase muta, con occhi atterriti e vuoti, in attesa solo di invecchiare di più e morire. Ma da qualche tempo questi ragazzi avevano donato una nuova vita al paese. C’erano famiglie intere, i due negozi di alimentari lavoravano, persino Tonino Laganà vendeva gli abiti. Anche io avevo rimesso su il tornio e il piccolo forno e nonostante i miei 76 anni, facevo ancora belle cose. “Bei cocci” avrebbe detto Antonia se fosse stata in grado ancora di sorridere. I ragazzi finirono in serata il loro lavoro sui muri. Mi aiutarono anche a sistemare gli attrezzi. Poi pulirono tutto e mi abbracciarono con gli occhi lucidi, grandi, bianchissimi sulla loro pelle. Per ultimo diedero un bacio sulla guancia ad Antonia. La sistemarono e misero a posto i panni che la moglie di uno dei due aveva stirato e lavato. Come avevano fatto gli altri giorni. Io non sapevo che fare ero smarrito. Avevo preparato 400 euro, li avevo risparmiati dalle buone vendite dei mesi passati. Glieli diedi con gratitudine e con le lacrime che mi stavano scendendo sulle vecchie guance. Mi richiusero con un sorriso lieve e dolce le mani sul denaro. Mi dissero nell’italiano che avevano imparato proprio lì nella nostra scuola, che gli sarebbe bastato quello che avevano preso lavorando e che quei soldi facevano più comodo a noi. Non risposi quasi intontito e rimasi in piedi senza parole. Mi accorsi più tardi che non li avevo neanche salutati. La mattina successiva feci appena in tempo a vedere ancora i loro occhi tristi. Volti smarriti, affacciati ai finestrini del pullman che, scortato dalle pattuglie dei carabinieri li portava via. Una scelta arcana di un ministro li allontanava per sempre dal paese che avevano ricostruito e fatto rivivere, restituendo anche a noi la voglia di restare. Il corteo di lampeggianti sparì alla curva, in fondo alla strada che usciva dal paese. Rifeci la via di ritorno tra le case di nuovo in un silenzio fatto di vuoto. Mi fermai davanti alla porta di casa che stranamente era socchiusa. Allarmato la spalancai, non poteva essere stata Antonia non si muoveva dalla sedia senza il mio aiuto. Mi accolse una voce rauca che con terrore riconobbi subito. Era Michele Salamara detto l’albanese: “nsiettu niri c’allordàri se sono andati (gli insetti neri che sporcavano sono andati via). Allora, Domenico, ora ti sei ripreso e puoi pagare”. L’aguzzino era con un compare che si avvicinó sorridendo a Antonia e le accese l’accendino vicino al guancia. I suoi occhi da tempo vuoti, si riaccesero del terrore di quella sera e il panico avvampò la mia anima. L’Albanese era vicino al cassetto aperto della credenza, aveva in mano i quattrocento euro che avevo inutilmente offerto la sera prima; parló di nuovo: “ ‘sti picci (spiccioli) li prendiamo come anticipo per il prossimo mese; addio Domenico”. Si mossero finalmente, ma prima di uscire il compare, con disprezzo sputò sull’intonaco immacolato della stanza. “Siete tornati” riuscii a dire con un filo di voce”. “A noi Dome’, non ci manda via nessuno!” rispose. Detto fatto mi salutó battendomi la mano sulla spalla. Uscirono piano, con spavalderia fischiettando e lasciando la porta aperta.


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