MONTECHIARO

di | Apr 26, 2021 | Attualità

“Ti piacerebbe andare a sciare?” mi chiese mio babbo Remo quel giorno tornando da lavoro.

Lui era, perché ormai non c’è più, un operaio dell’Italsider di San Giovanni Valdarno. Lavoro duro, allo “sbozzo”. Pezzi di ferro incandescente che scorrevano su rulli. Avanti e indietro,  presi con grandi tenaglie, dentro a passaggi sempre più stretti finché questi pezzi tozzi, divenivano lunghe serpentine a forma di  “T” o  “L”, a volte anche rotaie del treno. Lavoro pericoloso, massacrante.

La paga, con una famiglia di sei persone, non bastava mai e la parola “vacanze” era un miraggio, figuriamoci d’inverno. “Come babbo a sciare e la scuola?” chiesi stupito. “Farai le lezioni lassù in montagna”. Lassù; quella parola galleggiò nell’aria della mia fantasia. Fantasticai posti mai visti, vette innevate, discese sugli sci apparse solo nel bianco e nero della televisione.

Che occasione.

Aspettai la partenza come si aspetta Natale. Già il viaggio era un’avventura, come salire su una giostra. Arrivare ai confini della Francia fu per me come il giro del mondo.

San Sicario, l’avevo cercato nella cartina dell’Italia senza però trovarlo. Quando ci passammo col pullman da San Sicario capii perché non c’era nella cartina, in verità erano poche case di legno, ma la sorpresa fu Montechiaro.

Quel cubo di cemento e acciaio nel mezzo dei boschi, avveniristico. Il grande prato davanti già un po’ innevato.

Ci divisero in squadre, ci fornirono anche i vestiti e le tenute da sci, ci furono spiegate le regole, tutto come fosse un gioco. Gli scarponi da sci, mai visti. Alti fino alle caviglie, con le stringhe che si incrociavano passando da dei ganci laterali. Poi gli sci, questi sconosciuti. 

“Alza il braccio sulla testa e piega la mano” mi venne detto “ecco questa è la misura adatte a te”. Non vedevo l’ora di provarli io che a mala pena sapevo andare sulla bicicletta. “Questi sono gli attacchi” ci spiegarono “dovete mettere la punta dello scarpone prima incastrandolo in questa specie di gancio. La leva davanti allo scarpone va abbassata con forza e stringerà la molla dietro al tacco e vedrete che lo sci si attaccherà forte al vostro piede”. 

Il prosieguo fu un avventura fra spazzaneve rovinosi, cadute, risate, discese azzardate senza sapere bene come fermarsi.

Il maestro Colli, mi sembra si chiamasse così, ci insegnò la “scaletta” e in questa maniera battemmo la neve sul pendio che fungeva da pista fuori dalla colonia. Gli sci lunghissimi, si incrociavano in continuazione, ma che emozione la discesa.

Tutto era organizzato, le lezioni al mattino, poi lo sci prima di pranzo. Ancora lo sci e poi alcune ore di scuola. Si giocava prima di cena e dopo. Si cantava, nascevano grandi amicizie.

Bambini e bambine del nord, del centro del sud, e poi i “monitori”. Termine a me ignoto, in pratica ragazzi più grandi che accanto ai maestri veri e propri stavano con noi sempre. Loro stessi amici, affettuosi, pieni di cure e comprensione.

Ci fu poi Sestriere, con i suoi palazzi rotondi. Lo ski-lift e le piste vere. Quando tornai a casa, nel programma scolastico ero avanti ai miei compagni di classe.

La lunga esperienza invernale fu solo il preludio a quella estiva, nel settembre dell’anno successivo. Quella vacanza fu di quelle che ti segnano e ti rimangono nel cuore dell’adolescenza. Giornate intense, senza scuola, divertimento puro. Libertà, gite fra i boschi.

Grandi amicizie e grandi battiti di cuore. La speranza di andare sempre in squadra con quella bambina che ti piaceva, che nel gioco ti avrebbe preso per mano.

“Chevaliers de la table  ronde dites-moi si le vin est bon…”

Il Monte Chaberton che ci sorvegliava dalla Francia e dall’altra parte il Fraiteve Italiano mèta della “grande gita”.

Troppo presto finiva la vacanza.

“È l’ora dell’addio fratelli è l’ora di partire…” cantavamo l’ultima sera e si partiva con la nostalgia nel cuore. La stessa che ti fa sorridere e un po’ commuovere nel riscoprire quelle gambe secche nella foto ingiallita con il monitore, quel sorriso spensierato nella grande foto di gruppo in bianco e nero. 

Oggi, che i capelli sono bianchi e qualche ruga segna il viso, guardo i miei tre figli ormai grandi. Le loro vacanze si fanno prendendo l’aereo, studiano a Cambridge, si laureano in ingegneria informatica.

Stasera accenderò il fuoco del camino e gli racconterò di sci di legno, di scarponi di cuoio, di giochi fra i boschi e di vivere la giovinezza intensamente perché da grandi possano guardare una foto e semmai anche loro dire: “io sono quello lì, nella fila in basso, con i miei orecchi a sventola e la vita davanti, che rido fra tutti i miei amici. Ora vi racconterò di quelle vacanze bellissime che non dimenticherò mai, per tutta la vita, perché furono le vacanze di Montechiaro”.


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