PAZIENTE ZERO

di | Feb 27, 2020 | Attualità,Storie

Diecimilatrecentocinquanta chilometri da Mosca. 

Davanti a un enorme monumento intitolato “Maschera del ricordo”, nella città siberiana di Magadan mi stavo domandando se la passione per il mio lavoro meritasse il sacrificio di molti anni della mia gioventù trascorsi in quei luoghi sperduti nel mondo. 

Pensavo agli studi, alla Laurea in biologia molecolare, alla ricerca e ai riconoscimenti che avevo avuto in patria. Ma i muri dei laboratori mi stavano stretti. Io volevo esplorare, anche se la biologia molecolare mi portava ogni giorno a indagare un mondo sempre nuovo e infinitamente piccolo. Una luogo popolato da elementi buoni come le proteine, il glucosio ma anche un universo alieno con molecole inquietanti come i batteri o peggio i virus. 

Magadan, costruita nel 1930 in epoca stalinista sul Mare di Ochostk. Luogo di prigionia imposto dal Gulag per reprimere i dissidenti del regime. Lontanissima dalla libertà e da tutto, la città più vicina Jakutsk, era a duemila chilometri di distanza. Qui i detenuti estraevano oro, stagno e uranio dal ricchissimo terreno e poi morivano di freddo, fame e a causa delle pallottole di guardie spietate. Il monumento davanti a me, davanti al quale si perdevano questi pensieri, era stato eretto a loro ricordo. 

“Marco, Marco, ti sei incantanto? Dai andiamo, io qui ho finito”. Era Uzao che mi chiamava urlando dall’altra parte della piazza dove era collocato il monumento. “Ecco vengo subito” gli gridai distogliendomi da quei pensieri. Mandai un saluto ai prigionieri morti in quel remoto posto e mi avviai verso il nostro mezzo. Avevamo fatto le provviste e ora potevamo ritornare nel nostro avamposto più a Nord, dentro la Siberia, vicino ad Atak, centinaia di chilometri di viaggio per arrivare nel niente.

Io guidavo e il mio compagno si mise nel sedile accanto, pronto ad addormentarsi in quel non breve viaggio. In verità il suo nome era Zhao Hui, cinese della provincia dell’Hubei, geologo bravissimo e anche simpatico, un po’ pazzo come me.

Eravamo rimasti io e lui, la nostra spedizione scientifica si stava esaurendo, erano gli ultimi due mesi. Gli altri sei componenti se ne erano già andati. Avevano passato la fine dell’anno in famiglia. Io d’altro canto ero solo e a Uzao, come lo chiamavo io, interessava rientrare per il capodanno cinese alla fine di gennaio, fra pochi giorni. Sarei rimasto solo alcune settimane per riordinare le cose e poi anch’io sarei partito.

Cosa facevamo ad Atak? Studiavamo il Permafrost, questo terreno che dovrebbe essere perennemente ghiacciato, da decine di migliaia di anni. Miliardi di metri cubi, di roccia, sabbia e ghiaccio che hanno imprigionato piante, animali e microbi, antichissimi, millenari.

Da tempo si registrava un anomalo innalzamento della temperatura, di solito 20, 30 anche 40 gradi sottozero, oggi a malapena in certe zone si raggiungeva lo zero, spesso anche sopra.

Le poche case ad Atak erano costruite su delle specie di palafitte proprio per non riscaldare il terreno e divenire così instabili. 

Invece ora, specialmente intorno al nostro campo di studio, si creavano laghetti, depressioni, fenomeni carsici, infinitamente pericolosi per la nostra Terra.

Lo scioglimento dovuto all’innalzamento della temperatura della Terra, avrebbe liberato miliardi di tonnellate di anidride carbonica e metano, forse due e tre volte la quantità emessa in seimila anni dall’uomo. Questo studiavamo e la ricerca sarebbe stata presto resa pubblica per far si che i potenti della terra comprendessero che forse avevamo imboccato una via senza ritorno.

La nostra povera Terra, in qualche modo, ci stava avvertendo e noi dovevamo ascoltarla.

Arrivammo a notte inoltrata, tutte le provviste furono messe al loro posto e poi andammo stanchissimi a letto.

Ci alzammo a tarda mattinata, un sole tiepido, assolutamente insolito ci accolse. Ci aspettava una piccola missione di ricognizione in una depressione che avevamo scorto qualche settimana prima, una decina di chilometri più a Nord. Quando arrivammo ci accolse uno spettacolo inatteso e terribile. La lieve depressione si era abbassata di oltre due metri, in fondo c’era dell’acqua che evidentemente aveva attirato delle renne. Quattro esemplari, distesi, morti. L’odore del gas metano, ancora nell’aria nonostante il vento lo avesse dissolto, ci chiarì la ragione della loro fine. 

La gravità del momento ci fece continuare in silenzio le nostre attività. Uzao scavò il terreno incredibilmente morbido per quasi un metro, io raccoglievo il materiale che fuoriusciva. Ad un tratto la pala trovò qualcosa di solido, Uzao fece leva e pian piano portò alla luce un uccello, intatto, prelevato da un terreno ghiacciato da migliaia di anni. Lo prendemmo e lo mettemmo dentro un sacco. Mentre il collega cinese finiva i rilievi, io presi molti campioni dei sedimenti di piante e elementi che erano intorno all’animale, evidentemente anch’essi antichissimi.

Al ritorno scattai delle foto dell’animale e le inviai al nostro centro in Europa. 

Era ormai sera e cenammo, Uzao mi parlò del capodanno cinese, delle feste che avrebbe fatto. La preoccupazione passò e riuscii a dormire un sonno tranquillo.

La mattina seguente mi misi a fare approfondimenti con il potente microscopio che avevo in dotazione. “Viene a vedere” dissi a Uzao.

“Ma cosa diavolo sono questi?” mi domandò con l’occhio ancora fisso alla lente.

“Vedi quelli sono batteri, ma gli altri potrebbero essere virus. Li chiamarono così in latino, “veleno”; non esseri, non cellule, ma organismi che hanno bisogno delle altre cellule per propagarsi, un parassita, una vita non vita”. Uzao si voltò inquieto “insomma degli alieni, come extraterrestri”, “chissà” gli risposi pensieroso. Il giovane cinese si allontanò un po’ perplesso dall’apparecchio e guardandomi indispettito andò a lavarsi le mani e la faccia. 

Istintivamente presi il campione che stavo studiando e lo richiusi nei vasetti ermetici rimasti tutti aperti fino ad allora, poi sorridendo nervosamente verso Uzao mi lavai anch’io accuratamente,

Il giorno dopo arrivò la risposta dai laboratori e fu incredibile: Eremophilia Aplestris, l’uccello ritrovato era un’allodola vissuta quarantaseimila anni prima, praticamente intatta con le piume.

Pensando ai virus rilevati la cosa mi fece inquietare.

I giorni seguenti però la routine fece il suo corso e la fine della missione si avvicinava. Uzao finalmente arrivò alla partenza; preparò le valige con cura e cenò l’ultima volta con me, il giorno dopo l’avrei accompagnato di nuovo a Magadan, da lì un aereo lo avrebbe riportato in patria.

“Cosa hai” gli chiesi vedendolo serio e un pò strano “Non so, mi fa male la testa” mi rispose tossendo “sarà l’emozione di tornare a casa”.

La notte fu agitata, il mio collega tossiva spesso e non riuscì a dormire. Al mattino partimmo Uzao stette zitto tutto il viaggio dicendo solo: “Ho un pò di febbre, ma vedrai una volta in Cina tutto passerà”

Lo salutai all’ingresso del volo, mi abbracciò forte, commosso. Dopo tanti giorni passati insieme si era creata una grande amicizia. “Ciao scienziato” mi disse da lontano “ti scrivo non appena arrivato”.

Tornai al campo che era quasi notte, ma non riuscii a dormire. Anche a me ormai rimanevano pochi giorni. Feci in quelle settimane gli ultimi rilevamenti, misi a punto le bozze e mandai tutti i verbali agli uffici centrali. 

A qualche giorno dalla partenza iniziai a sentirmi male, la tosse non passava e la febbre, nonostante gli antibiotici, non si abbassava. Ero preoccupato, anche perchè ad Atak non c’erano ambulatori medici e l’ospedale più vicino era a Magadan.

Pensavo a Uzao, al suo malore, al fatto che non ci eravamo più sentiti, ai virus. 

Allarmato ripresi i rilievi fatti al microscopio giorni prima, osservai di nuovo  quei virus che avevo trovato. Organismi di migliaia di anni prima rimasti sepolti nel ghiaccio, che avevamo riportato ai giorni nostri.

Ebbi paura, compresi che sarei dovuto andare in ospedale e raccontare tutto. Era già notte e non potevo mettermi in marcia, sarei partito la mattina seguente.

Naturalmente non dormivo, mi mancava il fiato, respiravo con fatica. Mi venne in mente di contattare il mio amico cinese, erano ormai venti giorni che era partito.

“Come stai Uzao, tutto risolto?” ma il telefono satellitare rimase muto.

Ero riuscito appena ad addormentarmi quando il suono di un messaggio in arrivo mi svegliò. Era la risposta dalla Cina che mi lasciò senza parole: “Gentilissimo Marco, Hui purtroppo è deceduto, una violenta polmonite lo ha distrutto in pochi giorni, il corpo è stato cremato e molti aquiloni sono volati per lui”.

Il fiato, che già mi mancava, divenne affannoso scrissi un’informativa urgente per i nostri laboratori. Probabilmente avevamo liberato un virus sconosciuto, un portatore era già morto in Cina, nella Provincia diHubei vicino alla città di Whuan, occorreva analizzare tutti i suoi conoscenti. Io stesso ne ero contagiato e mi stavo recando a Magadan per informare la autorità.

Scrissi il messaggio al computer, senza vedere bene cosa stavo digitando. Il testo purtroppo non partiva, il sistema satellitare doveva essere riavviato, rispondeva il computer, ci sarebbero volute delle ore.

Decisi allora di stampare il tutto, presi il foglio, mi coprii come potevo ed uscii nella fredda notte siberiana.

Guidai all’impazzata rischiando più volte di uscire di strada, respiravo a malapena mentre la febbre ormai annebbiava la vista.

Finalmente le luci di Magadan, illuminarono l’orizzonte. Sbandando arrivai alle porte dell’ospedale e la corsa del potente Suv finì contro la porta del pronto soccorso.

Sbattei la testa, aprii il portellone e caddi fuori dall’auto. 

Intravidi le sagome di quelli che mi sembrarono degli infermieri. Con l’ultimo respiro che avevo nei polmoni riuscii debolmente a dire: “la Terra…la Terra è il paziente zero”. 

Quei poveri infermieri non compresero e pensarono che l’uomo stesse delirando per il colpo ricevuto nell’incidente.

L’ultimo anelito di vita di Marco se ne andò con il vento, mentre un pezzo di carta gli sfuggiva dalla mano portato via dal turbinio dell’aria, lontano nella fredda tundra siberiana.


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